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Rubrica su un libro da leggere o da rileggere

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A cura di Giovanni Nacca

  
Ottobre 2019

 

 

 

G. Merola,  I versi della mia vita

 

con scritti di P. Mesolella e G. Caparco

anno 2008 – pp. 64 – Sparanise (Ce)

 

 

Come un piccolo canzoniere: la poesia di Gemma Merola.


Se è vero che la poesia è sempre più relegata ai margini dei processi culturali dei nostri giorni, tanto da essere quasi invisibile, è pur vero però che essa percorre strade silenziose, scava oscuri camminamenti che la fanno riemergere poi, anche dopo lunghi tempi, inaspettatamente, sino a sorprendere felicemente.

È il caso de I versi della mia vita [Sparanise (Ce), 2008] di Gemma Merola, poetessa calena, che da autodidatta ha dedicato molti anni della sua vita alla poesia, accanto alla quale ha realizzato anche un’interessante produzione pittorica. Versi e colori, dunque, che hanno da sempre accompagnato le tante stagioni trascorse, sono confluiti poi in questa sorta di breve autobiografia poetica.

La qualità prima della sua scrittura è quella di usare una lingua semplice, umile, fatta di concretezza e limpidezza. Una poesia che potremmo definire ‘onesta’ per richiamare quella concezione che della poesia aveva Umberto Saba e che, coraggiosamente, opponeva ai preziosismi, frammentarismi ed ermetismi vari in voga negli anni dieci-venti del ‘900.

Pur non conoscendo il semenzaio da cui la poetessa abbia, eventualmente, prelevato indicazioni, esempi e modelli, tuttavia, non c’è alcun dubbio che sia riuscita a comporre, con ‘onestà’, un piccolo, ma delicato canzoniere autobiografico che ci consente, peraltro, di gettare pure uno sguardo incuriosito sul contesto in cui nascono molti dei componimenti. La poetessa, oggi ottantenne – inferma da tempo per le conseguenze di un intervento chirurgico – originaria di Calvi Risorta, con un verso misurato, accorto, dalla parola semplice, piana, chiara, parla della vita in famiglia, degli affetti privati, di incontri, di amore, del ciclo delle stagioni, delle piccole cose della vita quotidiana. È consapevole di aver ricevuto Il dono della poesia (titolo che apre la raccolta), un dono che arriva nelle notti insonni col fragore di un temporale, un dono che le consente di scandagliare l’animo spesso angosciato e mettere a nudo i propri sentimenti senza infingimenti o artifici vari, come quando rievoca l’esperienza di un amore contrastato e, infine, svanito, ma ancora tale da far sanguinare la lontana ferita, come in Spinoso roseto o in Amore infinito .

Ed è la memoria, soprattutto, lo strumento di scavo di cui si serve la poetessa, una memoria che opera una serrata rivisitazione del tempo passato che non riesce a riavvolgere, non riesce, in nessun modo, a mettere da parte, poiché le garantisce di risalire alle vitali ragioni della sua identità: «In un’atmosfera dal colore di seppia / tra lontani ricordi, ho trovato me stessa» (in Infrenabile angoscia ). Da quella ricca pellicola sono estratti fotogrammi in cui sono ripresi momenti e volti della sua vita: tutto e tutti ruotano nel contesto del suo paese, sempre rievocato con malinconica tristezza e che mai ha abbandonato, nemmeno durante il lungo esilio che la portò, dal 1965 al 1986, a vivere a Roma. Anzi, proprio la forzata lontananza, rinvigorisce il suo legame col piccolo centro casertano dove «si respira aria natia» , mentre nel ritorno alla casa di un tempo, tutto le viene incontro amorevolmente, liricamente trasfigurato da una non comune sensibilità poetica: «le mura arricciate sembran darmi il benvenuto. /Entro in casa e mi vesto d’infanzia» . Altre volte, però, in preda a una sorta di disperazione per l’incanto infantile svanito, la vecchia casa è colta in un’immagine luttuosa. L’abbandono presente in cui la casa paterna ora versa, stride con i ricordi felici di un tempo; essa pare custodire ancora le ombre di chi non c’è più, e tutto, dopo una gelida pioggia, assume i caratteri della morte: «le porte sono umide e appiccicose … In casa c’è odore di chiuso … di miseria … di fermo» (in Odore di fermo ).

Del luogo natio, un’articolatissima memoria conserva dettagli, oggetti, avvenimenti e personaggi, che offrono in controluce anche uno spaccato di vita, semplice e frugale, tipico del mondo contadino ancora in vita negli anni del dopoguerra. Scene e immagini di «quell’epoca povera e balorda» ̶ ben narrata nei racconti di Bruno Mele, altro caleno ingiustamente dimenticato ̶ scorrono nelle poesie di Merola, come il lardo che penzoloni faceva bella mostra nella camera della nonna e di cui si registra con realismo «il grasso squagliato / sulla riggiola zoppa accumulato» ; la polenta consumata in silenzio attorno al focolare; un caldo mattone avvolto nello straccio consunto per affrontare il freddo invernale; il luccichio spento dell’immancabile secchio di latta; la «zolla di calce che funge da gesso» nell’aula allestita nella stalla che le pecore lasciano appena finita la guerra; il paniere di canne in cui posare i fichi appena raccolti in una campagna che, spalancata e muta, avvolge la ragazzina che segue le orme lente del padre. Le ombre del passato sfilano incessanti nella galleria del tempo e bussano alla porta dei ricordi, come l’affettuoso e laborioso padre; la madre che, pur in una dinamica conflittuale, ha tanto amata: «Ti ho amata … / ma tu nemmeno accanto alla morte / lo capisti» ; la vecchia tessitrice che decorava il telaio «di santi e madonnine / ma non riuscì mai a trovar marito» e ancora altre figure della sua infanzia i cui nomignoli richiamano con immediatezza un abitato di case piccole, povere, ammucchiate in vicoli contorti di cui ancora si respira l’odore della promiscuità: zi’ Maria , Pisciarella , Pucinella .

Una capacità di osservazione, non disgiunta da un sincero rapporto col divino, testimonia la piena adesione della poetessa a quel mondo di valori che presto sarebbe stato travolto dalle urgenze di una modernizzazione dettata da nuovi processi produttivi ed economici.

È il caso, inoltre, di sottolineare come non poche volte, l’attività di pittrice si mescola sapientemente alle sue parole, come nelle poesie sulle stagioni a cui dona i colori della sua fervida tavolozza interiore. Nelle quattro poesie che dedica alle stagioni, il verso si colora con poche ma precise pennellate. Ne L’inverno risalta il contrasto cromatico tra il bianco della neve che «sulla siepe ha formato un merletto» e l’apparire di uno stremato pettirosso; in Autunno la poetessa calpesta «foglie cialdose» tra «gli alberi imbronciati» , cogliendo, con felice sintesi, la fugacità di quel tempo mesto: «L’estate è partita / e l’inverno è in arrivo» ; in Primavera la frizzante fioritura di colori adorna «la sua verde gonna» ; L’estate , infine, esplode in un tripudio di colori, in cui si alternano l’oro del grano, il rosso del papavero, il viola delle more, il verde del grillo e, della cicala, l’argento delle ali. Una gioiosa tela di fronte alla quale la poetessa esprime tutta la sua meraviglia e la fiducia nel miracolo della natura, nel valore della vita.

Ma il tempo trascorso e irreparabilmente perduto, il disagio di una difficile condizione di vita, sono alla base di una continua riflessione sul senso della propria esperienza, in cui il futuro è affrontato con la forza di una mai sopita fede religiosa. In Impalpabile brandello , lo spettro della morte che nei suoi anni verdi considerava lontanissima, preda di un sonno profondo, ora invece, viene vista come una belva pronta a sbranare: «in un precario dormiveglia / seduta su una grande sedia / con gli artigli adagiati sui braccioli» . La voce della poetessa di fronte al temuto e atteso epilogo, non s’incrina, non trema affatto, anzi sale ferma, possente, come quella di un martire che va incontro alla fine. Fine sì, ma del solo brandello del suo corpo: «Non avrò scampo / … / osserverò l’impalpabile brandello / seguitar la rotta per raggiungere la meta / da Dio predestinata» .

Silenzio e discrezione hanno accompagnato la vita di Gemma Merola, una donna forte e coraggiosa che ha saputo anche sfidare le convenzioni e i pregiudizi di anni in cui, in gran parte delle province meridionali, il processo di emancipazione femminile non aveva ancora iniziato il suo lungo e, tuttora, faticoso cammino; in anni duri e difficili in cui alla donna era ancora riservato il solo ruolo di ‘angelo del focolare domestico’. Ma Gemma Merola, nobile artigiana del verso, è stata anche una donna generosa che col suo spontaneismo poetico, intriso di senso religioso, ha incluso tutto e tutti nel suo ‘canzoniere’, cantando il suo mondo, il nostro mondo.


Giovanni Nacca


 

Un libro sul sofà. Ottobre 2019.

a cura di Giovanni Nacca

Rubrica su un libro da leggere o rileggere.



 

 


 

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