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Rubrica su un libro da leggere o da rileggere

 

A cura di Giovanni Nacca

  
Aprile 2018

 

 

 

A. Benevento, Tra Irpinia ed Europa, Guida, Napoli

anno 2003 – pp. 68 – Euro 10,00

 

 

 

 

Cimenti narrativi di un critico letterario. Aurelio Benevento.

 

 

Per ricordare il critico letterario, Aurelio Benevento, scomparso all’età di 91 anni il 23 febbraio di quest’anno, si ripropone, a distanza di anni e con lievi variazioni, l’intervento Le stagioni del silenzio in A. Benevento. Cimenti narrativi di un critico letterario, apparso sulla rivista «il mulo» (a. V, n. 3, dic. 2004 – genn. 2005). La riproposta vuole essere un omaggio doveroso allo studioso avellinese, serio e discreto, che ha saputo indagare con passione, scrittori e stagioni della nostra civiltà letteraria, lasciando notevoli e preziosi lavori critici.


Chi conosce Aurelio Benevento, per il gran numero di studi condotti con precisione sulla letteratura italiana del ‘900, può rimanere sorpreso dal recente libro di narrativa Tra Irpinia ed Europa (Guida, 2003). A dire il vero, già qualche anno fa, accanto ai tanti e apprezzati saggi di critica, l’autore aveva affiancato buone prove d’arte con i volumi Il melo. Poesie del paese (Loffredo, 1994) e Quei monti azzurri. Ricordanze (Guida, 1998).
Ora, con questa raccolta di brevi, ma ispirate prose di viaggio, lo scrittore avellinese, dalla duplice qualità, critica e narrativa, entra con merito nella lunga schiera di quei narratori-viaggiatori capaci di coinvolgere emotivamente il lettore e di trasformare, grazie a una morbida scrittura, lo spazio fisico in uno spazio semiotico: le strade, i castagneti, le chiese, le fonti d’acqua dei paesi della cintura avellinese rivisitati dopo molti anni, acquistano come per incanto un soffio vitale. Lo spazio, accuratamente esplorato, finisce col perdere i riferimenti puramente descrittivi, rivelandosi come l’intimo paesaggio in cui si svela l’animo dello scrittore. In queste prose, non a caso pregne di spunti lirici, sono evidenti le frequentazioni di Benevento con la grande tradizione poetica del Novecento. Immagini e richiami, temi e suggestioni, entrano prepotentemente nelle sue pagine per accompagnare il lettore in atmosfere in cui è possibile scorgere autori come Rébora, Sbarbaro e Cardarelli – cui Benevento, peraltro, ha dedicato numerose pagine critiche – ma anche Montale e Ungaretti. I motivi della solitudine dell’uomo, della impossibilità di sfuggire alle ferite inferte dal tempo, della rarefazione di una realtà in cui l’autore scava in profondità per esplorare il proprio universo e, l’immagine di un impossibile ‘ritorno’ a cui conferire la speranza di lenire il disagio esistenziale, appartengono al repertorio della lirica novecentesca con cui l’autore tratteggia, in modo originale, il paesaggio di una generale e malinconica condizione autunnale. In essa si colgono assonanze fortissime con gli esiti della lirica novecentesca, con un utilizzo di prestiti, che mai costituiscono, però, volgari calchi. Basta seguire il volteggiare di quelle foglie che «già morte/ la gioia non sanno/ d’un ultimo volo/ nel nulla» (da Autunno, in Il melo) per ricordarsi di altre e più celebri foglie: «si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie» (G. Ungaretti, Soldati, in Allegria di naufragi, 1919).
Nel lento e visionario aggirarsi tra i paesi che circondano Avellino, l’autore compie un simbolico ‘viaggio di ritorno’. È un viaggio doloroso, dall’approdo mesto, quello che si compie nel rarefatto silenzio di borghi immobili e verdi vallate, in cui prende forma lo smarrimento (dolce abbandono) dell’uomo di fronte al drammatico fluire del tempo. In un raffinato processo di rammemorazione, il remoto fischio di un antico locomotore, nei pressi di Cassano, sembra lacerare le profondità di un presente, prigioniero di un silenzio assoluto:


«Per la verità nel primo tratto non seguo la strada provinciale,
ma preferisco imboccare una stradina che costeggia la vecchia
linea ferroviaria ed è ormai abbandonata, deserta e piena di

buche. Ma vicino c’è una sorgente d’acqua freschissima, dove le
donne della campagna vanno a riempire le brocche, e le siepi, che qui
invadono selvaggiamente il vecchio tracciato della strada, sono piene
di more nere e mature. La solitudine e il silenzio, poi, mi spingono
inavvertitamente verso i ricordi della fanciullezza, che mi viene
incontro tutta scandita dai fischi delle littorine di allora».


Bene, pertanto, ha fatto Angelo Flores a definire Benevento come ‘poeta del silenzio’ («Riscontri» a. XXV, n. 4, 2003). È il silenzio, infatti, assieme alla solitudine dell’autore, la chiave di lettura di queste prose: al Santuario del Salvatore di Montella «domina sempre un rarefatto silenzio», così come presso il lavatoio comunale di Cassano che non riceve più «le lavandaie, giovani e ciarliere». Il silenzio, come invisibile coltre, sembra coprire tutto; esso è sempre presente ed è ovunque, perché coincide col silenzio in cui, metaforicamente, Benevento colloca una generale desertificazione affettiva del mondo esterno:


«Nella strada che attraversa il fondo della vallata passano solo poche
macchine, ma sembrano ferme e non fanno rumore. C’è solo una
donna, non giovane e non vecchia, senza età, che cammina
lentamente, senza andare in nessun posto, poi si ferma e si curva un
po’ sul muretto che fiancheggia la vecchia ferrata, sulla quale i treni
non passano più, e guarda lontano, senza vedere, in direzione dei
binari che si allungano inutilmente. È l’ultima immagine della vita
che c’è stata in passato nel piccolo paese e che ora non c’è più,
dissolta nel grande silenzio e nell’aria di vetro».


Un brano in cui, oltre a cogliere sintonie con certe prose di Salvatore Di Giacomo, di cui Benevento fu lettore e studioso attento [vedi Napoli in dialetto e in lingua. Saggi su Salvatore Di Giacomo, (2000)], spicca un richiamo al primo Montale sulla consistenza dell’aria che filtra negli immortali Ossi di seppia (1925): «Forse un mattino andando in un’aria di vetrino ...» o, nell’Egloga della stessa raccolta: «Uno sparo si schiaccia nell’etra vetrino» o, ancora, quale ripetuto concetto che ribadisce a più riprese nell’immaginaria intervista delle Intenzioni (1946). E il silenzio, lungi dall’essere ostile, si connota quale fedele compagno di viaggio, fraterno e rassicurante, in cui il malinconico pellegrino sente di «ritrovarsi in un silenzio amico e in compagnia di se stessi». Allontanarsi per un istante, sia pure mentalmente, da quel silenzio – che conferisce agli irpini la loro tipica ‘discrezione silenziosa’ – provoca nell’Autore un senso di turbamento e di inquietudine. Come quando contemplando dall’alto di Moschiano le distese di solari agrumeti che preludono la chiassosa e caotica città di Napoli, resta scosso da un disagio che si placa solo «al ritorno, quando, un po’ scaricato dalla tensione, dall’ansia e dall’incertezza, allungo uno sguardo più riposato alle alte colline di castagneti e faggeti».
Nella sapiente tessitura del silenzio che lo accompagna, Benevento compie un viaggio a ritroso nel tempo, alla ricerca del lontano punto di partenza in cui potersi rifugiare, pur consapevole di non riacciuffare la remota condizione di serenità e di innocenza. In La casa dei nonni, luogo rivisitato più volte nel tempo, il poeta respirava il sopravvivere simbolico di una pace esistenziale, in cui ancora gli era possibile aprire «i cassettoni antichi/ odorosi di lavanda». Ma oggi, profanata dai ladri, anch’essa è prosciugata da ogni residua e salvifica acqua ristoratrice e condannata a un’aridità, prefigurata nella dolorosa confessione finale: «e io non innaffierò mai più le piante del giardino». La drammaticità del viaggio di Benevento, intimamente sofferto, si configura nell’impossibilità del ritorno, di ogni ritorno. Come nel mito omerico, l’uomo è condannato a un eterno ritorno che mai porterà a compimento.Lo sforzo titanico continua, anche nel suo peregrinare europeo in qualità di Preside del prestigioso Liceo “Colletta” di Avellino. In questa seconda parte del libro però, la sua mano si fa più incerta, più rugginosa. Si avverte un affievolirsi dell’intensità della prosa che assume caratteristiche più descrittive rispetto alle pagine del temerario nomade che rivive, incantato e con rassicurante familiarità, i piccoli centri della sua verde e circoscritta terra. Di fronte agli spazi aperti di un’Europa ancora incerta e in costruzione, egli non riesce a fare a meno di rituffarsi nel rorido paesaggio
d’origine:


«Giunto a casa nella notte, al mattino ho sentito il bisogno di
ritornare tra i miei monti, per cercare di ritrovare, nell’antico
silenzio, il filo di una matassa che per un momento si era un po’
intricata».


Viene voglia di incontrarlo questo mite, ma indomito viandante, mentre scivola silenzioso tra i luoghi del suo ‘natio borgo selvaggio’, magari come un’ombra tra le fosche prigioni borboniche di Montefusco o, in un pellegrinaggio a Cassano – l’amato paese di origine – asserragliato nel sonnolento tepore ottobrino o, quando consuma la gioia di ritrovare nei boschi, ancora una volta, nonostante le rovinose cadute tra rovi e spine, le piccole fragole, cercando di stringere a sé, anche se per poco, l’illusione di una ritrovata felicità:


«Tengo stretto nel pugno il piccolo sacchettino rosso di cellofan
pieno di fragole ancora profumate di bosco. Sono poche, ma anche
quest’anno ce l’ho fatta» .

 

Giovanni Nacca


 

Un libro sul sofà. Aprile 2018.

a cura di Giovanni Nacca

Rubrica su un libro da leggere o rileggere.



 

 
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