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Rubrica mensile su un libro da leggere o da rileggere

 

A cura di Giovanni Nacca

  
Settembre 2017

 

 

 

C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino

anno 1999 pp. 140 Lire 16.000

 

 

 

 

 

 

Cesare Pavese e il mestiere di narrare le ceneri della vita.



È la storia di un ritorno, un viaggio nel tempo, un viaggio nella memoria. Un ritorno il cui approdo non ha nulla di consolatorio, nulla che possa lenire le ferite inferte dalla guerra. Scritto verso la fine del 1949 e pubblicato nell’aprile del 1950, La luna e i falò fu l’ultimo romanzo di Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo [Cuneo], 1908 – Torino, 1950). In una manciata di mesi lo scrittore cuneese passò dalla frivolezza dei salotti mondani (con La bella estate vinse lo Strega, a giugno) alla disperazione che lo portò al suicidio, avvenuto il 27 agosto in una camera dell’albergo Roma di Torino.

Siamo a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale le cui drammatiche vicende, sfociate nella lotta partigiana, lasciarono segni profondi nella vita delle singole persone e – come altrove – nella coscienza delle comunità.

A narrare la vicenda in prima persona, è un quarantenne soprannominato Anguilla che ritorna dall’America, dove era andato – come tutti credevano – a cercar fortuna. Si scoprirà invece che la sua fu una fuga per evitare ritorsioni per le sue frequentazioni antifasciste durante il servizio militare a Genova. Spinto però dalla nostalgia e dai ricordi di una terra che la distanza ha idealizzato in una cornice magica e simbolica, il protagonista intesse un fitto dialogo tra passato e presente in cui tornano i luoghi in cui visse la difficile condizione di orfano, adottato da una famiglia di contadini. La memoria riaccende la sua luce sulle cascine della Gaminella e della Mora, sulle stagioni e sulla vita tra le colline, i vigneti e i boschi di una natura ancestrale con cui si stabilisce un legame simbiotico: «Riconoscevo la terra bianca, secca; l’erba schiacciata, scivolosa dei sentieri; e quell’odore rasposo di collina e di vigna, che sa già di vendemmia sotto il sole». Ritorna il ricordo del lavoro nei campi, delle feste, di Canelli, luogo di produzione degli spumanti: la cittadina rumorosa, trafficata, immersa negli affari. La cittadina che accendeva l’immaginazione del ragazzo era considerata «la porta del mondo», secondo lo schema classico del contrasto ‘campagna-città’, sempre presente in Pavese.

Ritrova Nuto, l’amico falegname con trascorsi da partigiano, a cui Anguilla era particolarmente legato da una sorta di sentimento filiale dovuto alla triste condizione di orfanezza. E conosce Cinto, ragazzino claudicante, con cui stringe amicizia e in cui si rivede: non a caso anche Cinto rimarrà, di lì a poco, orfano in seguito a una tragedia familiare. Ma il ritorno di Anguilla s’appresta a conoscere un’amara verità che spazzerà via ogni conforto, ogni speranza. Nulla è più come prima. L’illusione svanisce e prende corpo la tragicità del destino, la fatalità degli eventi che il tempo ha decretato. In quelle terre il fuoco non è più quello di una volta, quello misterioso, quasi sacrale, dei falò che si accendevano nei fondi, affinché ‘svegliassero’ la terra per renderla più produttiva. Ora il fuoco, ha una valenza negativa: è quello della guerra che ha incendiato i luoghi e sconvolto la vita delle persone, o quello appiccato, per follia, alla cascina della Gaminella, seminando distruzione e morte, da cui si salva solo Cinto – affidato poi alle cure di Nuto. Il riverbero delle fiamme col loro sinistro crepitio segna la fine di un mondo, di un’epoca, inaugurandone un’altra in cui il futuro già reca i segni della discordia civile, della violenza, del fallimento.

Sarà proprio Nuto, diventato taciturno, silenzioso, a mettere al corrente l’amico di quanto successo in sua assenza, degli episodi cruenti di una guerra fratricida, delle reciproche violenze tra partigiani e fascisti. Non solo. Silvia, Irene e Santina, le belle figlie del padrone, il sor Matteo, sono morte anch’esse. Ma è soprattutto la drammatica fine di Santina a rappresentare l’apice della violenza e della crudeltà del nuovo e già compromesso presente. La bella Santina – di cui Anguilla fu segretamente innamorato in gioventù – fu giustiziata dai partigiani per la sua attività di spionaggio e il suo corpo venne dato alle fiamme. Nuto stesso è presente al momento dell’orrendo epilogo ricordando che si tagliò «tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutto cenere. L’altro anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò». È quest’ultimo drammatico falò a chiudere il romanzo che per molti aspetti è il più autobiografico tra quelli scritti da Pavese.

Il libro, che risente senz’altro ancora del vorticoso clima di ritrovata libertà che nel Paese si sprigionò all’indomani della Liberazione dal nazifascismo fu, inizialmente, accostato al filone neorealistico anche per temi e contenuti tipici, come gli episodi della Resistenza; l’aver privilegiato un particolare ambiente sociale, quello contadino, fatto di sudore e sacrifici; la visione di quel mondo, osservato e studiato con competenza dallo scrittore piemontese – è il caso di ricordare che in quegli anni Pavese dirigeva, con Ernesto De Martino, la «Collana viola» che Einaudi dedicava agli studi antropologici, etnologici e religiosi. Né va trascurata, inoltre, la precisa scelta operata a favore di una lingua molto vicino al parlato, fatto di cose e di forme dialettali, una lingua che, utilizzata da ognuno nella smania di raccontare la propria storia, consentiva la scoperta delle «diverse Italie» ‒ come acutamente registrava Italo Calvino [Prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno (1947)].

Il romanzo, invece, privo di ogni intento apologetico, come di ogni fiducia ideologica, rispecchia quel “male di vivere” che ha sempre accompagnato lo scrittore, dilaniato da disagi e problematiche personali che, dopo aver incenerito ogni speranza, sovrappone alla solitudine e al fallimento dei suoi personaggi il fallimento del proprio progetto esistenziale.


Giovanni Nacca


 

Un libro sul sofà. Settembre 2017.

a cura di Giovanni Nacca

Rubrica mensile su un libro da leggere o rileggere.



 

 
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