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Rubrica mensile su un libro da leggere o da rileggere

 

A cura di Giovanni Nacca

  
Agosto 2017

 

 

F. Scarabicchi, Il prato bianco, Einaudi, Torino

anno 2017 – pp. 132 – Euro 12,00

 

 

 

 

 

 

Nei giardini d’inverno con la poesia di Francesco Scarabicchi.

 

A distanza di vent’anni viene ristampata nella prestigiosa ‘bianca’ di Einaudi una delle raccolte più significative di Francesco Scarabicchi (Ancona, 1951). Fu grazie a l’Obliquo, piccolo, ma raffinato editore bresciano, che il poeta anconetano conquistò sin dal 1997 un posto di tutto rilievo nel panorama poetico nazionale, tanto da catturare le attenzioni di critici e poeti come Gian Carlo Ferretti, Andrea Zanzotto, Massimo Raffaeli, Fabio Pusterla, solo per citarne alcuni. La sua corposa produzione si condensa nei volumi La porta murata del 1982 (con introduzione di Franco Scataglini), Il viale d’inverno (1989), Il cancello 1980-1999 (2001), L’esperienza della neve (2003), L’ora felice (2010), oltre a numerosi altri lavori in collaborazione con artisti e fotografi: una produzione tale per cui un

giovane e brillante critico come Roberto Galaverni, non esita ad annoverarlo tra i maestri contemporanei.

Sin dagli esordi la poesia di Scarabicchi si caratterizza, con immediatezza, per la sua essenzialità, per la sua nudità: una poesia che, frutto di un continuo levare, sottrarre, sfrondare, finisce per lasciare sul foglio bianco una scia diafana, pallida, un insistente lucore che, pur scivolando via, continua a rimanere a lungo, un po’ come l’effetto ottico provocato da una luce che si spegne improvvisa: «Con i lumi di strada/ vanno i sogni/ – sulla tranquilla/ via dell’alba –/ pallidi». Il lettore rimane ammaliato da una «nebbiolina fonica» – secondo la bella immagine di Fabio Pusterla – che si diffonde come un ronzio, un sommesso bisbigliare, rendendo evanescente il dato contestuale. Con pazienza certosina il poeta è come se si applicasse a un affresco per ripulirlo da tutto ciò che è eccessivo e superfluo, per grattare sino in fondo l’intonaco e riportare alla luce i segni originari, quelle sinopie che costituiscono la struttura incorruttibile, l’impalcatura di un frammento primevo, di una nascosta scheggia di verità da trarre in salvo dal vorace e insensato scorrere del «tempo che non trattiene/ nulla di ciò che è vivo».

Il verso levigato, asciutto, rinsecchito – Enrico Testa, non a caso, parla di «monachesimo lessicale» – finisce per prediligere il bianco, il colore intenso e assoluto della stagione invernale con un rimando a cascata ad altri termini che rientrano nello stesso fortilizio semantico: neve, freddo, gelo, silenzio.

A ben ricordarsi, la scelta di individuare la stagione fredda quale campo in cui seminare i propri versi, fu la scelta programmatica di alcuni giovani autori, per manifestare, in qualche modo, anche le ansie scaturite dal crollo della stagione dei sogni, delle ‘belle bandiere’ di pasoliniana memoria, nonché dall’imminente fine millennio con tutto il suo carico di insidie e di incognite. Così, mentre la storia voltava definitivamente pagina, in una manciata di anni furono pubblicate raccolte come Concessioni all’inverno (1985) di Fabio Pusterla, Febbraio (1985) di Gianni D’Elia, Il viale d’inverno (1989) del nostro Scarabicchi e Residenze invernali (1992) di Antonella Anedda, che rappresentavano una prima e temeraria orografia di un futuro vago, incerto, a tratti minaccioso.

E allora, in Scarabicchi, bianco è il ‘passo di notte’, bianchi sono i pensieri, o addirittura il ‘povero niente’, bianca è l’ombra, come bianca è la nebbia che avvolge la città. Il termometro interiore scende ulteriormente nel registrare la ‘neve di nulla’, ‘il gelo che ferma gli occhi’, oppure scorgere ‘rami vinti al gelo’, la resa di un giorno di gennaio in ‘un oblio di neve’. Non solo. Una gragnuola di altri termini, inoltre, amplifica il generale senso di gelo e di solitudine esistenziale: lampada, lume, occhiali, finestre, vetri, a cui il poeta, ricorre per ‘vedere’, indagare, scoprire cosa è sepolto sotto le banalità ele insignificanze quotidiane della vita. Nella prima parte de La luna dei naviganti, il poeta riflette sul tempo trascorso, tracciando un inesorabile consuntivo: «Tutto il freddo/ degli anni/ gela i giorni/ di noi che passeremo/ una volta e mai più/ da queste parti» il cui tono lascia supporre, quasi con naturalezza, approdi nichilistici. Invece, qua e là nella tormenta interiore, tra le nebbie e le ombre che convivono col poeta, qualche sprazzo di luce genera una sottile, ma tenace resistenza alla rassegnazione. Un raggio di fiducia remoto, di speranza, trafigge la coltre del nulla, creando l’attesa di una rinascita: «Si fanno/ così chiare/ le voci,/ giovane il giorno,/ aprile meno freddo,/ finalmente». Un sussulto che assume, in alcuni casi, valore di resistenza che testimonia anche la dimensione civile del poeta marchigiano che, di notte, è impegnato in delicate operazioni di salvataggio: «Porto in salvo dal freddo le parole,/ curo l’ombra dell’erba, la coltivo/ alla luce notturna delle aiuole,/ custodisco la casa dove vivo,/ dico piano il tuo nome, lo conservo/ per l’inverno che viene, come un lume», nel cui testo è evidente la presenza di quasi tutti i nuclei semantici della sua poesia: freddo, ombra, luce notturna, inverno, lume.

A prevalere, in ogni caso, è una stagione fredda, claustrale, immersa in un mutismo dalle atmosfere monastiche appunto, che contrasta con la confusione e il chiasso dell’estate balneare che l’Adriatico vive ogni anno, mare che il poeta ama e sente intimamente suo, solo quando è distante, come visto da lontano: «Dopo cessato il vento,/ il mare è calmo/ (luci rare, lontane,/ dalla costa)» oppure, quando è deserto «Pochi/ battelli fermi,/ nell’ora di nessuno,/ sul mare,/ la domenica». Da Ancona a Grottammare, luogo di una luminosa infanzia, sino ai litorali romagnoli di Cesenatico – dove è vissuto il poeta e amico Ferruccio Benzoni – per scendere fino a quelli abruzzesi di Ortona, questo mare non ha niente della festosità e della promiscuità estive, ma rappresenta un ulteriore elemento di riflessione e di introspezione, in cui il poeta mette la sordina all’irruenza dell’io, rifiutando sdegnosamente ogni forma di autocompiacimento: «Non è qui, non ancora,/ ma distante/ la via che solitaria/ porta al mare», versi che confessano sedimentate suggestioni leopardiane e montaliane.

Tutto il mondo caro a Scarabicchi entra nella sua poesia: il mare col suo triste porto carico di ricordi bellici, il dolce profilo del Cònero, la nobile terra natia, l’ombra severa di Leopardi che riaffiora qua e là nei versi del poeta e, infine, l’onnipresente vento che soffia tra le pagine del libro. Sono gli elementi costitutivi di quella poesia ‘residenziale’ che il maestro Franco Scataglini (Ancona, 1930 – Numana, 1994) seppe erigere con un nugolo di giovani e coraggiosi poeti della ‘linea marchigiana’, tra cui Scarabicchi, Massimo Raffaeli e Gianni D’Elia. Non a caso, proprio ‘Residenze’ fu il titolo del settimanale radiofonico che, nel periodo 1980 -1981, venne da loro condotto per conto della Rai delle Marche.

A distanza di vent’anni, Il prato bianco, si pone come il meticoloso resoconto di una sofferta ricognizione esistenziale, in cui la direzione del cammino predilige quasi sempre una dimensione invernale, immersa in un silenzioso letargo, in un tempo che invita alla pazienza, all’attesa: «Finalmente distanti/ dalla noia del sole/ questi mesi/ che portano all’inverno/ nei giardini tranquilli/ già nel sonno».

Un tempo in cui la parola poetica come semi di grano, al riparo sotto la neve, prometteva generosi germogli e proficuo raccolto. Come poi è stato.

 

Giovanni Nacca


 

Un libro sul sofà. Agosto 2017.

a cura di Giovanni Nacca

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