corporation
corporation_scintillio0
corporation_scintillio1

 

Rubrica mensile su un libro da leggere o da rileggere

 

A cura di Giovanni Nacca

  
Ottobre 2016 

 

 

F. Pusterla, Ultimi cenni del custode delle acque, Carteggi Letterari, Messina

anno 2016 - pp. 45 - ill. - Euro 10,00






Cronaca di una devastazione annunciata. Frammenti poetici di Fabio Pusterla.

 

Un senso di sgomento prende dopo la lettura dell’agile, ma densissima raccolta del poeta ticinese. Come impauriti, si resta in attesa che avvenga qualcosa di ineluttabile, che da un momento all’altro si abbatta sul nostro mondo una sciagura a cui non è possibile sfuggire. I quattordici frammenti, che costituiscono l’ossatura di un work in progress e che inaugurano la collana di poesia della casa messinese, nascono dalla suggestione esercitata da un misterioso toponimo lombardo, la Casa del custode delle acque di Vaprio D’Adda. Ma il custode è misteriosamente scomparso, ha lasciato la postazione di controllo delle chiuse del fiume, le cui acque, non più governate, avanzano minacciosamente nel rombo spaventoso della loro forza distruttrice. Un abbandono inspiegabile, improvviso, di cui si possono rilevare solo poche tracce, gli ultimi cenni di una presenza che vengono puntualmente registrati nel ‘Rapporto preliminare degli Ispettori’. Il tutto è avvolto da mistero e da una cupa atmosfera anche grazie agli inquietanti disegni a matita di Francesco Balsamo che accompagnano la raccolta.

La minaccia è immediata sin dal primo verso, un unico verso che, posto quasi ad esergo, «Viene la tumultuosa», annuncia a tutti che non c’è scampo, che è tardi per ogni riparo, ogni tentativo di rimedio. Tutto sarà spazzato via: il velo del presente, le tracce del passato, tutto sarà trascinato dall’acqua che «nella rabbia e nella pietà/ porterà la sua mano di fango/ il disordine necessario inevitabile/ ad ogni metamorfosi futura». Una forza distruttrice che passa come l’angelo della morte il cui funesto compito si rende necessario per generare un nuovo inizio: «preparerà la luce della terra invasa/ una nuova serenità dell’alba». Conosciamo Pusterla come il cantore di una natura da tutelare, il poeta delle acque e dei paesaggi, degli alberi come degli animali, dei monti e delle rocce, delle loro lente stratificazioni e delle loro lontane ere, tanto da essere ricordato come poeta della ‘memoria geologica’. A tendere l’orecchio, comunque, s’avverte la lunga e discreta lezione di Giorgio Orelli e Philippe Jaccottet: maestri riconosciuti dal poeta ticinese per levità e capacità di umanizzare gli elementi della natura. Qui, l’acqua, come elemento naturale, scorre con la valenza simbolica di castigo e di purificazione di fronte al degrado morale e materiale scatenato da un’umanità che rinuncia alla profondità dei propri valori per seguire spietate logiche di mercato. Anche in questi frammenti, dunque, non poteva mancare il forte segnale civile che Pusterla, da sempre, lancia nella sua poesia, fin dal lontano esordio in Concessioni all’inverno (1985) e costantemente presente in tutta la corposa esperienza poetica successiva.

Il poeta non abdica di certo, ma confessa la dolorosa stanchezza di fronte all’evidenza di una contingenza in cui la tracotanza del potere – istituzionale, politico, economico – non mostra capacità di redimersi. È vero che nella poesia di Pusterla c’è un costante ricorso all’antitesi, alla contrapposizione (buio – luce, timore – speranza), ma in questi versi il contrasto sembra alquanto squilibrato. A predominare è infatti un senso di impotenza, di fatalità degli eventi, di sfiducia nella ragione umana che ha dilapidato momenti esaltanti della storia del secondo Novecento come la stagione del dopoguerra e le attese generate dal crollo degli ultimi muri ideologici.

Sembrano lontani anche i tempi di Corpo stellare (2010) in cui il poeta affidava le sue ansie di rinnovamento non all’agire umano, ma all’andare scanzonato e controvento dell’armadillo, curioso animale notturno capace di esercitare quella funzione resistenziale di fronte alla inarrestabile omologazione e alla lenta deriva esistenziale che ne consegue.

Oggi, altri drammi, altre disperazioni urgono, bussano alle nostre porte. E allora, non è difficile scorgere nei flutti del fiume in piena, la stessa acqua che gronda, nella nostra cronaca quotidiana, angoscia e tragedia di un’umanità migrante e disperata, vittima degli squilibri criminali di miopie occidentali. Pusterla, ticinese, è noto come poeta di ‘confine’. Vivendo tra la Svizzera e l’Italia, ha acquisito lo status di inappartenenza, per cui più di altri, avverte il senso del limite, del margine, del confine, della frontiera, che paure ataviche spingono a sorvegliare e a difendere da ogni intrusione: «È vietato lordare le acque./ .. È vietato portare di là/ chi di là non deve andare:/ mendicanti, malati, paure,/ disperati di sventura». E scatta così, con immediatezza, l’analogia con l’esodo di popoli che scardina ogni certezza presunta, ogni rassicurante idea di confine, per cui monta la paura e l’irrazionalità delle risposte: «Paghino alle dogane/ pedaggio ai nostri ponti,/ facciano i loro conti o/ crepino a casa loro./ Son venuti da terre lontane/ son venuti senza invito». Il custode che garantiva le nostre comode esistenze non c’è più, è misteriosamente scomparso, si è dileguato. La ragione cede alla natura, vacilla l’illusione di un antropocentrismo capace di governare i fenomeni e l’umanità degrada brutalmente di fronte ad ogni catastrofe: «È vietato portare al dito/ l’anello della pietà».

Quello della scomparsa a ben vedere è un tema ricorrente nella poesia di Pusterla: in Bocksten (1989) rinviene casualmente in una torbiera svedese il cadavere di uomo morto secoli prima in circostanze misteriose; nella poesia Da Marmorera (pensando a Brassempouy) in Le terre emerse (2009), a scomparire sotto le acque di un lago artificiale è l’intero paesino di una vallata grigionese tra le alpi elvetiche, i cui abitanti, forzatamente condotti altrove, assistono con indicibile malinconia all’affiorare periodico del vecchio campanile dalle acque; in Folla sommersa ‒ dell’omonima raccolta del 2004 ‒ in occasione della morte di Paul Hooghe, l’ultimo soldato testimone della grande guerra, il poeta indugia sulla scomparsa della ‘memoria viva’, la cui durata, comunque, non supera gli ottant’anni; o ancora, in Uomo dell’alba (Corpo stellare, 2010) dove il poeta ripensando alla beffa dell’uomo di Piltdown - congettura paleontologica di inizio Novecento, dettata da imposizioni positivistiche – ne denuncia la manipolazione e l’occultamento della verità scientifica.

Pochi esempi, sufficienti, comunque, a dimostrare la tendenza ad una reificazione dell’assenza in cui il poeta vive il tormento che niente resisterà alla furia silenziosa della piena del tempo: «l’acqua si chiuderà/ tutto sarà sparito». Si rimane come ai bordi di un precipizio ad osservare inermi una lenta ma inesorabile dissoluzione, laddove neppure la tenue e commuovente resistenza dell’anemone di fiume sembra in grado di opporsi all’erosione dell’acqua, al buco nero del suo gorgo nihilistico: «La sua canzone si perde nel moto» è «un riscatto inutile,/ la stella senza colore che resiste./ Quello che ancora insiste/ quando tutto è perduto».


  

Un libro sul sofà. Ottobre 2016.

a cura di Giovanni Nacca

Rubrica mensile su un libro da leggere o rileggere.



 

 
Joomla templates by a4joomla