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Rubrica mensile su un libro da leggere o da rileggere

 

A cura di Giovanni Nacca

  
Febbraio 2016 

 

 

L. Compagnone, L’amara scienza, Vallecchi Editore, Firenze

anno 1965 - pp. 220 – Lire 1.800

 

Prove generali di sopravvivenza nella Napoli di Luigi Compagnone.

 

Ci sono scrittori che, dopo la loro scomparsa, pur avendo lasciato un patrimonio letterario inestimabile faticano a squarciare la coltre dell’oblio spesso tessuta, non solo da fisiologiche dimenticanze, ma anche da linee editoriali a dir poco scellerate.
È il caso del napoletano Luigi Compagnone (1915 – 1998), scrittore e giornalista di razza, personaggio tuttora scomodo per l’acuminata e feroce critica volta a smascherare, attraverso una scrittura spesso dissacrante e ironica, le ipocrisie della sua città e le cancerose convenzioni in cui amava – ed ama tuttora! - cinicamente baloccarsi l’intero establishment nazionale. Nella vasta produzione spiccano libri memorabili come Città di mare con abitanti (1973), L’onorata morte (1960), Capriccio con rovine (1968), Ballata e morte di un capitano del popolo (1974), Mater Camorra (1987) solo per citarne alcuni.
Una lunga e tormentata invettiva contro la deriva morale e materiale che travolge, nell’indifferenza totale, una società che a partire dagli anni ’60 del secolo scorso era oramai in procinto di cedere agli egoismi più aberranti e alla narcotizzante civiltà dei consumi, aspetti che sembrano largamente caratterizzare i nostri tempi.
È il caso del romanzo L’amara scienza (Vallecchi, 1965) in cui l’autore narra la drammatica e amara giornata di una famiglia napoletana che rischia di vedere confiscata la propria casa per alcuni pagamenti pregressi non effettuati. Il vecchio capofamiglia Augusto Alinei, vedovo e malato, incarica i tre figli di cercare il danaro necessario per evitare il fallimento. Comincia così, in una Napoli arsa dal fuoco estivo e attraversata in lungo e largo da processioni oranti in cerca di un miracolo, la terribile e angosciante giornata di Eugenio, Lucia e Isidro, quest’ultimo “minorato infelice”, nel cui nome è possibile già scorgere che manca qualcosa.
La storia si snoda, con apprensione crescente, lungo lo scorrere di un’intera giornata, ma la giornata di Compagnone è tutt’altra cosa rispetto alla ‘bella giornata’ partenopea di Raffaele La Capria, descritta nel fortunato Ferito a morte del 1961. Qui, infatti, non ci si muove tra placide nuotate o pigre giornate passate al Circolo Nautico, ma tra incontri inquietanti e pericolosi, con un senso di minaccia sempre incombente che la corsa contro il tempo rende l’intera vicenda ancora più penosa e allucinata.
Scaraventati nella bolgia napoletana i tre fratelli - ognuno aggravato dal peso di un personale fallimento - s’imbattono in personaggi ambigui, cinici, divorati da una crescente ferocia che affievolisce ogni residua umanità. La stessa città, precipitata in una cupa atmosfera da girone dantesco, sembra vacillare sotto i colpi dell’indifferenza, della corruzione e del degrado, amplificato, peraltro, dalla criminale speculazione edilizia che proprio in quegli anni il regista Francesco Rosi denunciava nel film Le mani sulla città (1963).
Riusciranno i tre sventurati ad evitare il dramma? O saranno risucchiati nelle viscere di una Napoli che, nonostante le tante resurrezioni nella sua lunga storia, sembra non offrire più vie di scampo? Attraverso una scrittura singolare, feroce e visionaria, Compagnone delinea con “un soprassalto di deluso illuminismo” un presagio da fine del mondo in cui l’uomo rischia di precipitare nell’oscuro gorgoglio di una torbida sopravvivenza.

 

Un libro sul sofà. Febbraio 2016.
a cura di Giovanni Nacca
Rubrica mensile su un libro da leggere o rileggere.

 
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