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Rubrica mensile su un libro da leggere o da rileggere

 

A cura di Giovanni Nacca

  
Gennaio 2016 

 

 

F. Pusterla, Il nido dell’anemone, Edizioni d’if, Napoli
anno 2015 - pp.293 - Euro 25,00

La forza della parola fragile di Philippe Jaccottet.

È quasi con devozione filiale che Fabio Pusterla dedica questa raccolta di saggi a Philippe Jaccottet (Moudon, 1925), poeta svizzero tra i più importanti in Europa e più volte candidato al Nobel. Nell’elegante e prestigioso volume, Pusterla, ticinese e anch’egli poeta notevole, propone una riflessione che consente di attraversare la lunga esperienza poetica di Jaccottet a partire dai lontani esordi con L'Effraie (1953) sino ai nostri giorni con L'encre serait de l'ombre, 1946-2008. Un’opera che ha lasciato un segno indelebile tanto da ricevere il privilegio - raramente concesso ai viventi! - di una sistemazione critica e filologica in un volume della Bibliothèque de la Pléiade.
Una riflessione che è anche il segno tangibile di una antica e appassionata fedeltà che Pusterla ha avuto per Jaccottet, proiettandosi, negli anni, come una sorta di ombra attaccata al corpo del poeta di Moudon, fino a diventarne il traduttore, nonché prefatore e curatore, più accreditato della sua vasta opera in Italia.
Poeta appartato, al punto da essere accusato ora di marginalità, ora di silenziosa aristocraticità, Jaccottet ha da sempre indagato con la forza del suo verso sommesso la profondità dei paesaggi in cui è vissuto, da Grignan all’alta Provenza: campi e boschi, stagni e torrenti, fiori e alberi, uccelli acquatici e notturni, muri cadenti e case invase dall’edera, la terra e i suoi sentieri su cui restano, nonostante tutto, vaghe tracce del passato e di passaggi che «danno una vibrazione profonda, tengono vivo il sogno di una sorta di ritorno all’indietro …». Il tutto scandagliato con una parola concreta, al limite dell’umiltà, una parola che viene dal basso, dal quotidiano, ma che sale vertiginosamente alla ricerca della vetta su cui arde la brace di una verità. Una ricerca duratura, estenuante, che porta Jaccottet ad incontrare significativamente il pittore italiano Giorgio Morandi, alla cui esperienza artistica non a caso egli dedica un libro denso come Le bol du pélerin (2001) che offre l’occasione a Pusterla di cogliere con precisione alcune analogie nel cammino dei due artisti. Entrambi vivono in una sorta di isolamento monacale (l’uno a Grignan, l’altro a Grizzana), una ostinata e maniacale ripetitività di alcuni temi (pochi elementi paesaggistici per il poeta, pochi oggetti nelle nature morte e pochissimi spunti paesaggistici per il pittore) e, non ultimo, il ricorso ad uno stesso linguaggio espressivo spoglio di ogni sacralità, di ogni intento oracolare, che sembra povero, che tende all’umile, all’essenziale.
Emerge, cioè, la necessità di una scrittura modesta che si rapporti il più fedelmente possibile al dato esperienziale e ad una percezione non superficiale del reale. Un’esigenza che pare nascere anche da un senso di appartenenza culturale e linguistica se uno scrittore come l’imperiese Francesco Biamonti abbia confessato che “forse è rovenzale il mio tentativo di far aderire le parole alle cose, le cose alle parole”.
Obbediente a quest’imperativo, Jaccottet riesce a raggiunge una personalissima cifra stilistica applicando il criterio della justesse. Rimanere fedele a ciò che è, senza orpelli o pesantezze retoriche, misurando con garbo e precisione, ‘giustezza’ appunto, la parola capace di riflettere il reale nei suoi bagliori lontani, avvicinarsi quanto più possibile a quei frammenti luminosi dopo aver percorso, barcollando con incertezza (incertitude), lungo il cammino conoscitivo. Un po’ come succedeva alla forza prorompente del dubbio socratico utilizzato come presupposto imprescindibile per giungere alla conoscenza, anche per Jaccottet ogni acquisizione rischia di essere una mortale paralisi, mentre «l’incertezza è il motore, l’ombra è la fonte» del processo cognitivo. Non sarebbe male in un chiasso quale quello di oggi, farcito da ininterrotti e amplificati processi mediatici, affidarsi a questa parola amica, abitabile come la definisce Pusterla: una parola che non impone ma che invita con destabilizzante semplicità ad attraversare «una zona di confine, il territorio in cui la realtà e il linguaggio provano a stabilire un’alleanza, a ritrovare un’armonia, una bellezza, un ordine profondo».



Un libro sul sofà. Gennaio 2016.
a cura di Giovanni Nacca
Rubrica mensile su un libro da leggere o rileggere.

 

     

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